Mi sembrano nuvole. E so che non lo sono. Ho conosciuto la zia Marietta. Abitava un terrazzo che dava sopra tanti terrazzi e lei conosceva le nuvole. Diceva, questa sì, questa no, come al mercato si scelgono le pesche. Ogni nuvola non è una nuvola, così semplicemente. Una nuvola ha, non ha, è. Questo zia Marietta. Un ultimo piano di una casa che aveva come orizzonte il carcere. Senza conoscere ancora il significato delle metafore capivo cosa voleva dire avere per orizzonte un carcere. Essere dentro è come essere fuori, se conosci le nuvole. Il suo tavolo ricoperto di pelle nera, la tenda azzurra di cellophan che nascondeva il bagno. Il letto nel corridoio-ingresso. La disposizione, insomma, secondo una linea di pensiero che nascondeva il pensiero. Lo annuvolava. Sino al punto che di fronte la porticina del suo ultimo piano, sul muro del pianerottolo, dalla nebbia si apriva un’altra porticina, dentro c’era un’altra casetta, una famiglia numerosa con molti bambini che zia Marietta mi presentava uno per uno per rassicurarmi che non sarebbe rimasta sola. Queste nuvole oggi, di oggi, lo so che non sono nuvole. Si muovono come stormi di uccelli sul profilo del mare. Virano. Si avvicinano e sono subito contro di me. Un’ansia: perché se non sono ansioso? Però ce l’avevo davanti. Quelle di zia Marietta potevo farle volare dal suo terrazzo semplicemente soffiandoci. Oggi, una nuvola ha bussato alla finestra. Allora ho capito che non era una nuvola. Che era un animale e un intruso. Un animale intruso. Questa nuvola, come una nottola, voleva entrare per forza nella mia casa dalla finestra. Da vicino sembrava un cane arrabbiato, pelle pesante, denti duri. Però: come fai a chiudere fuori una nuvola, in una notte di caldo, fuori dalla finestra?
da I GIORNI QUANTI (72)
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