GEOMETRIA DELL’OLFATTO

La temperatura segnava 25 agosto 1983 e ormai ero cieco. Mio fratello mi
aiutò a scendere i gradini che portavano in cucina. Sapevo che c’erano il
tavolo, le sedie austere, la bocca larga del camino, gli olmi lividi oltre le
finestre, il marmo macchiato di vino. Frinivano le lame, Amalia affilava i
coltelli, c’era il prosciutto che aveva aperto Valter la sera prima, il grasso
prendeva alla gola, si scioglieva a guardarlo, c’erano i sottaceto di Giovanni
e, su uno straccio, l’odore bianco del pane appena sfornato, un seme di
melone sotto le unghie e il profumo rotondo del frutto arancione. Ogni
odore rispondeva a una forma, era riconducibile a qualcosa o qualcos’altro,
c’era che vedevo con il naso, m’inebriavo di nuove geometrie, costruivo
mondi curvilinei a mio piacimento. Quando la realtà si era incrinata e aveva
iniziato a perdere forma e dimensione, mi ero rifugiato lì, nel naso. Due
camere striminzite dove avevo trascorso degli anni felici. Dalla consistenza
dell’aria, la fragranza delle nuvole; dall’aroma del caffè il liquido buio.
«Domani ci sarà un rinfresco», dice Valter.
Mio fratello scosta la sedia e si siede accanto a me. «Ah! sì! ce ne
importa?»
«Nel limite» dice Valter.
«Piantala Valter, a fare il litigioso.»
«Sta zitta tu, che non puoi capire.»
Neanche io capivo. Erano anni che andava avanti la faida. Giocavamo
insieme da ragazzini, eravamo spigati insieme fino a che. Fino a che ognuno
per la sua strada. Solo che in posti così possibili le strade finiscono per
portare tutte dalla stessa parte. Ci si pesta i piedi. Qualcuno si fa male.
Qualcun altro se ne pente. Qualcuno ci rimette la vista, come è capitato a
me.

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