I GATTI BIANCHI SONO CIECHI

Igino Botteri tira fuori dall’armadio un completo spinato che ha il suono cristallino della canfora e odora
di cellophane.
«Hai stirato la camicia?»
«Nell’armadio, è là appesa.»
«Dove? Faccio tardi, mamma.»
«Guarda bene, Igino. Tieni gli occhi delle bambole.»
«Guardo, guardo.»
Padre operaio, madre maestra elementare, Igino, che ha trentatré anni suonati, vive ancora in famiglia.
Nel mese crudele in cui Botteri Luigi passò a miglior vita, sua madre, da poco in pensione, trovò la
signora Rizzi inchiodata alla porta. Era accaldata, in disordine, la vestaglia mezza sbottonata, i pizzi della
sottoveste frusciavano nervosi sul terital della scollatura e dell’orlo, l’indice teso pronto a suonare il
campanello, le forcine strette in bocca assieme alla notizia. Il Parini, sbronzo alla guida, aveva tirato sotto
Rex. Era un pastore tedesco.
Emilia, dopo quel giorno limaccioso, non mette più il naso fuori di casa. Morto un cane, non se ne fa un
altro e, tempo tre mesi, Igino porta a casa un gatto bianco. «Si chiama Zeus» dice a sua madre. Emilia
scuote la testa. «È cieco» dice, si gira dall’altra parte e cic-ciacca in cucina. «È così, fidati. I gatti bianchi
sono ciechi, è risaputo» continua con la voce arrochita, e spegne la luce del corridoio. Abitano al
pianoterra e nel trilocale – ampia metratura, doppi servizi vista su chiostrina interna, cortile di settantotto
metri quadri, no agenzie, no intermediari –, di luce non ce n’è mai abbastanza. Lungo il corridoio si
schiudono una teoria di stanze ombrose, rintronate di umidità. Prati di muffa fioriscono di nascosto dietro
l’armadio e il trumeau. Nella camera da letto di Igino, ma anche in quella di Emilia, si respira aria di
freschino, ci si salva a malapena perché l’olfatto è perennemente offuscato dalla sinusite che si trascinano
dietro tutto l’anno. Onnipresente è l’apparecchio per le inalazioni, ha il suo posto, a mo’ di soprammobile,
sul piano di noce della cristalliera. In fondo, vicino alla finestra, schermata da una mantovana di tende del
colore della chiara dell’uovo, il tavolo tondo, appoggiato al muro e coperto, per protezione del legno, da
una cerata a fiori. Il ripostiglio dove Igino mantiene le copie del giornale sono in fondo, a sinistra, la porta
accanto al bagno di servizio. Gli affacci della casa sono sull’ex Unione sovietica, sulla guerra, le lotte
partigiane, il crollo del Muro e il fuoco incrociato in Medio Oriente, sull’austerità e la scala mobile a casa
nostra. Igino entra ogni giorno nello sgabuzzino, ma la porta si è fatta striminzita e, un giorno tira l’altro,
diventa sempre più difficile entrare. Anche lo spazio si è ristretto, lo stanzino è muffito, trasuda umido, sul
soffitto si allarga la macchia minacciosa di una perdita al piano di sopra e un gocciolare di acqua sporca
cola disordinato e impregna ogni cosa. I giornali, in cui crede e che da dieci anni distribuisce, ormai non
sono neanche buoni per fare il fuoco, magari maschere di cartapesta per Carnevale. Igino non ci voleva
credere che tutto sbiadisce e cambia, tutto si appiattisce e le asperità si limano fino a sparire nel calderone
che sua madre chiama buon senso e lui sconfitta. Ciò che era vero ora lo è un po’di meno, un poco di più
si tende a guardare con timore al domani, incerto e senza prospettive, soprattutto per lui, disoccupato, in
fila a vuoto davanti all’ufficio di collocamento, una laurea in Filosofia con il massimo dei voti e un
dottorato ormai concluso, lui che il sabato mattina si aggira nel suo quadrante, via per via, citofona, suona
campanelli o bussa, e consegna il numero 640, porta a porta, chiedendo un piccolo contributo in denaro in
cambio.
Come ogni sabato mattina indossa il completo buono, le tomaie delle scarpe tirate a lucido, alle suole ha
pensato il calzolaio la settimana scorsa. Botteri, che milita e ancora ci crede, entra nel bar all’angolo e
raggiunge il bancone, poggia i gomiti, poi ordina. Tarchetti, un malfattore, un bassetto nervoso, gli molla
una gomitata. Si capisce che l’ha fatto apposta. «Scusa tanto» dice e sputa per terra. Stessa cosa fa
Dominici, il postino, che alza la mano destra e accenna il saluto. Lo Scemo tira una pernacchia delle sue
mentre Mariano, da dietro il bancone, lo guarda sbieco. Igino ordina uno stravecchio e lo manda giù
veloce, pronto ad andarsene prima che le cose diventino il peggio.
«Non ci devi andare più» dice Emilia, una volta rientrato a casa.
«Al bar di Mariano?»
«No, con quei quattro disgraziati.»
«Sono affari miei. Questo è quello che pensi tu.»

«Penso io, pensano tutti. Stessa storia del gatto» dice poco convinta e le scappa da ridere, ma porta una
mano alla bocca e si trattiene. In quel momento Zeus appare sulla porta della cucina. Avanza sinistro, la
testa alta e le zampe tese. Ha catturato una piccola preda, che ora trascina coi denti, all’ombra delle
vibrisse.
«Ci vede benissimo» dice Igino.
«Lo so e lo stesso vale per te.»

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