a Vitkovice camminavamo dentro una carcassa di ferro e ruggine. seguivamo l’eco dei movimenti meccanici, della produzione metallica, dell’euforia.
la polvere finissima nell’aria, intorno agli alveoli. l’entrata ostruita, ostruita l’uscita. dall’alto della torre di Ostrava, la città in blocchi di cemento altissimi e colate di colore per vincere la metastasi.
si erano diffusi velocemente, a macchia d’olio. ascoltavano i Velvet Underground, desideravano tempi migliori. si depositava a strati un imprevedibile abbandono.