I campi di stoppie, l’ombra esile di una quercia camporile, niente vento, nulla in testa – solo una voglia d’acqua e frescura, di pioggia o grandine addirittura, la grandine che sciupa la natura docile della coltura civile, delle viti in filari, degli ulivi, dei fichi verdini e tardivi. Riarso, colline gialle, piccole macchie di verde scuro nei vallini, caprioli assetati e impauriti, nell’ombra il lupo aspetta alle pozze – nulla in testa, resti di sogno, sudore a rivoli scende tra i peli delle ascelle, sul petto, sulla schiena, dalla fronte sugli occhi – vipere: e una strana sensazione di violenza necessaria e feroce, impellente, un’ansia d’omicidio, il sangue che scorre denso, le ossa che cedono ai colpi, denti sputati con resti di carnazza. Il sole equatoriale delle due del pomeriggio. E ancora le auto che passano veloci e alzano nuvole enormi di polvere secca e sparano ghiaia grossa che ti prende in faccia e fa male, una volpe attraversa la strada, la lingua fuori, cammina indolente e minacciosa, si ferma, piscia accovacciata – una nube oscura il sole per qualche secondo, l’universo cambia colore, siamo quasi al grigio ferro, poi viola tenue, poi ricordi di un acido preso a scuola durante un esperimento con molte palline da ping pong, il Moto Perpetuo, e le tende viola, appunto, che si muovono al vento di novembre, e il grido del tuo compagno lisergico, E’ un mostro! Un mostro viola! Ma subito torna a incattivire il sole d’agosto, e niente, non ce la faccio, non posso. Non posso più. Delirio, ora, parole come automatiche – troia, lercio sudicio schifoso: ma chi, chi, non lo so, non so più nulla, solo questo sole – questo sole.
QUESTO SOLE
AL SOLE
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