C’era che il vento increspava i gomiti, urticava la nuca e un incipit di buio
s’aggrumava negli angoli masticando ombra. Stagnante, un’acqua
limacciosa attufava il canneto. Amalia chiuse gli occhi e prese fiato. Parole-
pensiero si alzarono lievi, sgambate volarono in un frullare di disordine e
piume, gonfiarono l’aria di bugie e zampe storte, le G e le N a galleggiare in
un cielo di rafia. Incastrata, in fondo alla gola, un’ugola girino perdeva la
coda e si faceva rana, gracidava di erbacce e malefatte, saltava sui sassi
dilavati del torrente, spariva tra le spighe e il sorgo frusciante. Bastava tirare
su la manica per capacitarsi della furia dei denti di Gino. Incisivi, canini,
l’otturazione del molare sinistro, la capsula d’oro. Rientrava dai campi che
faceva scuro, era consumato, lordo, inaridito dal sole. Si sciacquava le mani
e subito s’incurvava sulla panca, con lo sguardo di carbone rovistava
rancore tra le zolle, il fiasco davanti e l’ombrina marchiata di rosso al solito
posto.
Se si aggirava il promontorio, la terra riarsa incontrava il mare. Crocchiava
di colli tirati alle galline, di razzolare senza testa mentre lei, stava lì, ben
salda, le gambe divaricate, nell’aia polverosa. Il boccone del prete, come
piaceva dire a Gino al cospetto del pollo arrostito, la mano a cuoppo e la
bocca aperta.
A smuoverla fu un richiamo di salsedine, la sfuggente consapevolezza di
alghe, la risacca di umori che risalivano pigri dallo stomaco vuoto. La
sterrata era scoscesa, un ultimo sguardo alla casa sbilenca, e giù, per il
sentiero, tra gli effluvi cangianti della benzina del trattore, che aveva sparso
con generosa dovizia, la scintilla del prospero, le prime lingue di fuoco che
baluginavano sulla collina. In un frangente di risacca, gli scogli lustri,
sbiancati da denti di spuma, si bagnò di coraggio e aspettò l’onda.
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