da I GIORNI QUANTI (85)

Qui, in terrazza, sembra che tutte le piante corteggino il vecchio frigorifero, ormai funzionante come sgabuzzino. Morto da sette anni. Ma è un Bosch. Fascino delle grandi marche. Fosse un Ariston il ficus beniamino avrebbe trotterellato verso l’angolo opposto, invece che strusciarvisi le spalle in deliquio. E inoltre, come tutti i frigoriferi tedeschi, conserva con alterigia la sua forma fisica. Le piante lo sanno. Se lo coltivano da tempo. Si insinuano o tentano di farlo proprio. Respinte comunque, sinora, da guarnizioni tedesche immarcescibili, semprevive. La corsa ci, mi rimpicciolisce le ali. Non vorrei. Vorrei proseguire senza cominciare né finire. Belle piante comunque. Anche se non so come si chiamano, si erigono nella percezione dell’attesa della pioggia. Che le avvicinerà qualche centimetro di più alla ventricaglia del frigorifero.

Qui, in terrazza, sembra che tutta la flatulenza della città sottostante sia evaporata e la campagna ritorni. Provare a stendersi sul pavimento, carezzare i mattoni come cuscini. Il senape e il verde. E il verde pisello pallido, già cominciato a nuocere al sole. Un geco dentro una formica. Saranno più o meno così i film horror che le formiche vedono di questi tempi nei loro televisori. L’azzurro elettrico e il rosso elettronico. Siamo in un albergo di terza categoria a New York, quasi al centro, quasi fortunati per quello che costa, per il servizio in camera. Ma non ci sono più posti. Come farà il 15 ad arrivare?

 

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