Forse era la fine degli anni settanta quando il comprensorio si era incistato a
ridosso del grande prato. Una cinta esterna abbracciava il complesso
residenziale e s’interrompeva solo per lasciare aria al campo da tennis e alla
rampa d’accesso ai garage. Il muro era poroso, la malta era di un tono più
chiaro dei mattoni, forse per contrastare la cupa ruvidezza del tufo.
Regolare, si ergeva a partire dall’asfalto grigio a lisca di pesce, seguendo la
metrica rigorosa del 2-1-2. Davanti e oltre, la terra di riporto, divorata dai
rovi, scarabocchiava un avvallamento scosceso ora infestato di malerbe.
All’interno delle mura, dieci edifici di cinque piani, dislocati lungo le anse
del viale principale o collegati da piccoli affluenti lastricati, di pendenza in
discesa o a scalette, forse per non cedere alla monotonia. Davanti all’entrata
principale, addossata al muro diruto di un’altra proprietà, crescevano
indisturbate due palme da dattero, seguite da quattro vasi di grandi
dimensioni di ligustro. La pavimentazione a coda di pavone accompagnava i
viali con siepi di mortella e pitosforo. Attraverso i vetri opachi della
guardiola, si intuiva la sagoma di Libero, il portiere. Dopo pochi passi, il
muro perimetrale s’apriva in un cancello azzurro sull’ingresso secondario,
una scorciatoia che passava davanti alla piscina condominiale per poi
ricongiungersi al viale principale. Provenendo dallo slargo, allignava il
contrasto con il complesso anni venti affacciato su via, animato
dall’insufflare sommesso di un vento di archi, volute, tetti spioventi e
costruzioni di due, massimo tre piani. Il comprensorio invece ostentava il
lusso freddo e distaccato tipico di certi androni di fine anni settanta, il
portone, legno e cristallo, rifletteva il rosso spento dei lastroni in marmo
screziato e le pareti rivestite di parati di un tessuto grezzo, ruvido al tatto, la
trama a vista, di colore verde. All’interno dell’androne dei palazzi, due
anfore di terracotta ospitavano una composizione floreale di Sterlitzia
Reginae, l’Uccello del Paradiso, anche se per molti, lì, era l’inferno.
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