Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, ho letto una volta
su un libro che nel titolo aveva la lettera K.
A pensarci, a distanza di anni, financo i signori Zerbino erano infelici a modo loro, anche se facevano di
tutto per non darlo a vedere. Sotto la messa in piega cotonata di Ines e il riportino di Fausto non era
difficile leggere dissapori di lacca e pettine. Gli occhi bistrati di Ines occultavano il pianto, le notti insonni
di rammendo, il ditale che non proteggeva dall’ago; la rigidità di colonna di Fausto mascherava, sotto
camicia, bretelle e panciotto, l’inseparabile cintura Gibot, misero argine all’ernia, i polsini lisi
raccontavano di risvegli di luce bianca, utilitaria fradicia di pioggia e turni senza tempo di gomiti
strusciati al bancone. Al mattino la città finiva in un riquadro di infissi per Ines e si schiudeva fosca al
traffico slabbrato per Fausto. Nonostante la pensione dove prestava servizio come portiere fosse in pieno
centro, cadeva a pezzi, nella camera 23 il sifone del lavandino perdeva da mesi, al punto che la goccia
aveva scavato solchi di rughe e dissapori nel viso acerbo di Fausto, già vecchio prima di invecchiare, a
ogni solfa di cliente seccato dal lavorio dell’acqua. La cucina era scadente, le portate scarse, il cibo
avariato, il padrone non sentiva ragioni, per risparmiare avrebbe venduto il figlio alla borsa nera. Ines, dal
canto suo, costretta tra quattro mura, cuciva in casa, usciva solo al sabato per via del mercato, da anni
evitava la funzione della domenica, un po’ per pigrizia un po’ per noia arrecata da bocca di prete, che
tronfio sparava giudizi secchi tra tonaca e aspersorio. Ines Zerbino si alzava di buon’ora, metteva il
bricchetto sul fuoco, incendiava una pagina di giornale e si piegava malferma per accendere il forno e
scaldare il cucinino. Alle sei e trenta in punto salutava Fausto, le suole già fuori dalla porta e un bacio
scivolato sulla guancia, poi rassettava e sprimacciava, ramazza e straccio, quando a un certo momento
metteva qualcosa a bollire. Intanto la signora Ovidi in salone provando la gonna plissettata lamentava
imprecisioni di orlo, la Mascarella del terzo piano concionava sulla chiusura lampo sostituita la settimana
prima che si inceppava a mezza corsa; Corinna Falsetti, residente al civico 17, ancora reclamava lo
spillone scomparso dal kilt dell’Ombretta sua figlia il mese addietro. Ines conservava le lamentele nel
primo cassetto del trumeau. A sera, quando lo apriva, sotto il sacchetto di lavanda e la camicia da notte,
scalpitavano le ingiurie del trequarti del signor Bompressi, l’orlo a giorno di Paola Sestili, il cartamodello
sbagliato della signora Principe, le striature cerulee del gessetto da imbastitura che aveva
irrimediabilmente macchiato il fustagno di Ada Restivo, il taffettà con l’impronta di un ferro troppo caldo
di Marianna Gobbi. Nell’ombra di rimprovero di spilli e spille da balia, di automatici spaiati e bottoni di
madreperla che non rilucevano più, Ines stipava malanimo e, a sera, quando i vetri si appannavano di
brodo, li appaiava a quelli di Fausto, poco prima di coricarsi e aspettare il nuovo giorno.
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