Mi ricordo di te che ti dissi: sposiamoci, in un momento di estasi narcotica, o magari era un sussulto d’infanzia, che ne so, una sbornia di lunedì, come i pesciaioli e i parrucchieri – so che te lo dissi: sposiamoci, e poi invece non ci sposammo. E ancora, a distanza di decenni, mi ingiuri e mi scatarri d’improperi e contumelie, che non ti ho sposato, che ti ho tradito con mille e mille e mille. Ma mi hai guardato bene? Ma sei sicura? Ma saranno state due, e due e due ancora e forse anche qualcosina meno, saranno state. Mi hai visto forse in una controra di mezz’ombra che ti son sembrato magari un altro, magari uno zio mai conosciuto da vivo, e visto solo in foto durante una gita al mare di Viareggio nel trentasette, al Poveromo. Sarà stato come i vestiti che indosso, che mi sembrano, dopo un po’ che li porto, fatti apposta per me, e mi immagino i sarti, i designer, che per me, solo per me, ingessano stoffe e impegnano giornate sane per le mie mutande e maglie a rosoni e fiori. Sarà stato così, che mi ti sono incollato addosso come un colletto a becche lunghe di una camicia degli anni sessanta. Sarà stato forse che ne avresti avuto bisogno te, di quelle polveri che mi arrocarono le tonsille intorno alla metà – o tre quarti – della fine del millennio brevis. Ti avrebbero forse resa un attimo più concreta e realista, meno nadir, meno zenith, meno tao e miao: dammi retta, fatti una bella pera di roba rosa thai, e poi si fa un’amicizia nuova, dove ancora mi racconti di quando a tre anni imitavi Ungaretti che recitava in RAI una cosa dell’Odissea, dell’Iliade, dell’Eneide, una cosa che Cavalli, Cavalli e Cavalli.
Ungaretti. E Cavalli. E Nenè.