GOREZIA

tra la gente inadatto e indietro, indomito, demente, redento e indegno, passo inutile tra le maniglie di porte lucidate a sidol, ottone, e dentro, dentro all’androne, mentre passo, ci vedo una faccia conosciuta, ma sono troppo ubriaco per uno stop and go, cadrei, e allora mi viene un saluto storpiato, un po’ da ubriaco, un po’ da passante semplice, fatto sta che saluto, quattro metri dopo il fatto, una maniglia verde di bronzo, la saluto e poi le dico: mi scusi, signora, è una medusa arrabbiatissima, la maniglia, mi scusi, mi sembrava la Lidia, la commessa dello spin, che infatti mi chiama di lunge, la Lidia vera, che esce dall’androne di cui sopra, ma io, volpino, faccio da nesci, faccio l’indiano, e proseguo sulla mia strada di passi incerti, di strambelloni per lungo e per dietro, tanto è vero che da ultimo cado disteso su una merda di cane, oppure è la vomitata di un quattordicenne, si riconoscono le carotine arancioni – c’è del curry, della curcuma, tua mamma è molto aperta alle spezie, son cose, brava, la mamma, che non si chiude alla via delle indie, al marco polo che è in tutti noi, cieco sfregiato, magari cecato no, magari con tre diottrie in più, che poi, sai, con tutte le seghe che ci hanno fatto adulti, sai, siamo tutti un po’ marco polo d’elezione e d’affetto, siamo dei marchi poli d’istinto, d’estasi, d’iniezione e raminghi tutto il mondo è gorizia, ora mi sfugge l’anta, l’onta, l’unto, l’intingolo, davvero, scusa la cecità, scusa, saramago, mi dispiazia – che poi mi ritorna gorizia, cosa cazzo c’entra gorizia, gorazia, vado

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