Sanno di finali inaspettati con un aeroplano schiantato in copertina. Visti e rivisti quegli spazi
erano acqua assorbita in carta assorbente multistrato con capacità digerente più che
pancreatica. Ho rischiato l’annegamento etilico. Menomale che c’è il fegato. Scorciavo scorci
di luci lontane miste a ricordi scordati che ripresero luce in quegli spazi, in questi istanti
distanti ed estesi. Cerotti insanguinati che pur comprimono l’espulsione. In quell’aeroplano
supersonico non si soffriva l’altezza né la scomodità né il mal d’auto né il sonno. Si planava
sul martirio su cieli limitati e una corda al collo. L’aeroplano è in decomposizione. Ora è
un’implanata pacata su una sensazione localizzata, diffusa.