L’orrore lo vedo in televisione nella gragnolata di talk-show in cui politici e paraplegicipolitici (cosiddetti giornalisti) indossano la cravatta, questa ghigliottina di altri tempi, senza averne obbligo, tradendo una vanità che è reciproca alla lora specchiabilità seriale. Di occupanti a gettone uno schermo che mai bucheranno per intero ma che ogni giorno bucherellano per elettori famigli, amici tipo il mondo chiuso di fb. Fuori dai set televisivi è difficile incrociare un uomo in cravatta, anche se fischia il vento e urla la bufera. Gli stessi che abitano quotidianamente le televisioni, fuori la tolgono come fosse squillata l’ora della rivoluzione. Le cravatte, questi osceni etamoliti di ignoranza estetica, dell’impoverimento edonistico una volta contrastato, attraverso baffi arditi e scopettoni, dai parlamentari dell’ottocento. Micidiali offese alla vista, più del riporto di Raffaele Lombardo, ex presidente di spennacchiata regione o dello spennacchiato Geremicca Federico che se li tira come avesse un diavolo per capello, le cravatte dei burattini che governano in televisione, sanno di giallo galliani, di celeste gasparri, di verde caldiroli, di rosa fini, di strisce di barchette di fragole cinguettanti, mosse nervosamente dalla mano del conducente per essere esposte perigliosamente al primopiano della telecamera, più delle loro facce conosciute ma cangianti sotto il dominio sussidiario delle loro cravatte. I nostri politici sono tanto cravattari che a Natale, ai loro delfini, consiglieri, succubi, assistenti, camerieri regalano una cravatta. Ogni tanto, sbadatamente, la regalano alla segretaria che se ne approfitta, indossandone una nerosgargiante, meravigliosamente lasca alla gola: per la gioia di chi, in t-shirt, facendo shopping in strada con gli occhi, la incrocia nel riflesso della vetrina.
“L’orrore non lo vedo in strada” di Francesco Gambaro
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