Scoppio di una ruota della bicicletta, wrang.
Vi guardo, voi, che state all’esterno delle mie palpebre, che sbattono piano all’accadere dei raggi del sole. Vi guardo che masticate pezzi di realtà in gelatina, come colla di pesce nella cotognata, o pezzi d’ananas a mo’ di barchetta. Vi osservo, vi annuso, vi intuisco dalla porzione d’ombra che marcate di piede in piede sulle fughe delle bozze delle strade del centro – e vi guardo ancora, esili, che non fate l’ombra, non fosse l’ombrellone verde marcio davanti alla tenda militare, pezzata, che arieggia d’ore roventi – tipo le due, le tre – nella calura agostana. E scoppia una gomma della bicicletta lasciata al sole, wrang, una botta che fa abbassare le spalle, e digrignare i denti. E poi le quattro, le cinque, l’ora del gelatino, frutti di bosco o amarena, una piena di sapori e ricordi d’annacquati ardori. Ma quando mai passammo alfine dentro le gote, le guance, dell’imbrunire? Ma – guarda – non ne parliamo: andiamocene, risparmiamo ancelle delle cose che non tornano perché meste, oppure triste, accanto all’Ossario dei Cappuccini di Trieste.