Genbraio 1.2.
Neanche a farlo apposta, in questo preciso istante, come vomitati dal verde fagocitante di una macchia di sommacco giunta alla chetichella fin sull’argine, ben tre loschi figuri – buzzurri a giudicare dall’abbiglio caratteristico e dall’incedere tipico di chi è solito portare ai piedi grossi scarponi quasi sempre appesantiti da una spessa soprasuola di creta & altro – escono affiancati all’aperto urlando ringhi a destra e a manca mentre fanno sfarfallare minacciosamente all’unisono nell’aria intimorita tre paia – ma da come le agitano, si direbbero sei paia – di mani adunche già pronte ad un imminente ‘aggrampo’. E a questo punto, non occorre avere spiccate doti intuitive per prevedere quel che a momenti succederà allo sventurato ciclista, a gambe all’aria e indecorosamente sciaguattante nello scarso palmo d’acqua fangosa, quasi stagnante, del tradimentoso guado. E invece, i tre, senza degnarlo di un solo sguardo, gli passano accanto sfiorando appenappena – ma, quando ciò accade, senza volerlo e con più di una manifesta punta di ribrezzo nei volti truci – con i pantaloni balbettanti per il vento della corsa le ruote della bici che girano a vuoto cigolando fastidiosamente, e, percorsi i pochi metri che li separano dalla scarpata, eccoli già impegnati a risalirla balzellon balzelloni con insospettabile agilità. Adesso, a sole poche spanne dalle mie spalle curve in avanti, rimbomba, propagandosi velocemente sul selciato indifferente, uno scalpiccio triplice, cupo, e ad un tempo, goffo e quindi notevolmente diverso da quello prodotto dalle mie falcate da fuggiasco, al quale tuttavia, spesso e volentieri, scimmiottandolo maldestramente, si accavalla con l’infame proposito, suppongo, di confondermi sconvolgermi inquietarmi. Ancora più snervante, per nulla immaginario, e a volte incredibilmente tanto vicino da farmi addirittura vacillare, l’ignominioso avvicendarsi sulla mia spoglia nuca indifesa, dei loro tre ostinati fiati fetidi … Qualche chilometro più tardi, …