Divembre. 2.5.
A questo punto mi è successa una cosa stranissima. Sarà stata colpa della spossatezza, o delle feroci schermaglie canine attorno ai miei indifesi polpacci foresti, oppure di uno o, più verosimilmente, di tutto un intero sciame di quei tanto scongiurati, quanto sordidi attacchi di panico capaci in pochissimi attimi di scombussolare e annichilire qualsiasi tranquillità psichica, ad ogni modo, io, io che in questa e in altre vite ho sempre avuto cara qualunque, persino la più improponibile, possibile solitudine, mi sono all’improvviso sentito così inquieto da umiliarmi a desiderare con tutto me stesso la repellente vicinanza di un essere umano! Per questa ragione, quando finalmente sono stato avvicinato, annasato, punzecchiato, accerchiato dall’assordante ‘ciuciuliu’ proveniente da un’anonima pùtia vicina, mi sono letteralmente tuffato col cuorcontento fra le decine e decine di sudici fili di plastica incolore di una tendina presa d’assalto a ondate daZzz una torZzzZzzma verZzzdesmeZzzZzzraldiZzzZzzna di ranZzzZzzcorosi Zzzmosconi rantunaZzzZzz, ruduZzzZzzsi, ZzzZzzrimischi ZzzZzz… Trottola pazza, finisco in mezzo a una folla vociante di persone che s’accalcano gesticolando come ossessi in prossimità di un alto banco di marmo bianchiccio sovraccarico d’algose sfaselle pienepiene di pesci mezzi vivi e mezzi morti d’ogni specie. Dietro questo banco, disposto ad U davanti alla parete che ho di fronte, tutte all’in piedi, muovendo a destra e a manca le vezzose testoline mulinanti coperte con diafane cuffiette orlate di pizzo, svenevoli pescivendole mozzano teste & code, sventrano, squamano, diliscano, sfilettano chili e chili e chili di pesci riottosi che saponettano birichini fra le loro delicate manine arrossate dall’acqua gelata. Volubili papillons blunottetropico spiccano voli immaginari davanti ai larghi colletti dei loro ariosi camici da lavoro, tutti così generosamente sbottonati da lasciare intravedere anche ai meno interessati bombate paccottiglie pacchiali intrigantemente mascagnute, zazzerute, pettinate alla garcon, arruffate, rasate a zero e quasi tutte, escludendo le pochissime – ma senz’ombra di dubbio ancora per poco, considerata la beltà d’ognuna – ostinatamente scrignute, già da tempo benbenino scozzonate. Un sano, forte, arlecchinesco lezzo ficale alletta ed ottunde i sensi. Sabbie mobili.
“… Hem … Scusate, brava gente… qualcuno di voi potrebbe gentilmente… potreb… potreb… dirmi dove mi trovo?” chiedo con appena un filo sottilesottile di voce senza rivolgermi a qualcuno in particolare ovverossia annegando lo sguardo in un ipotetico punto immaginato irraggiungibile su una, non ha importanza quale, delle quattro nude pareti.
Le teste di tutti – dico tutti – i presenti, si voltano simultaneamente verso di me. Impallidisco, nascondo le mani ben in fondo alle tasche e arretro istintivamente fino alla tendina che, ancora altalenante tra l’esterno e l’interno, mi solletica sgradevolmente la schiena curva ad esse. Sono occhi stigi, assenti, terroristi, caini, avvocateschi, scostanti, indifferenti, pazzi, albini, carampaneschi, algebrici quelli che s’avvinazzano per poco più di un istante tutt’attorno alla mia ingobbita, trista figura. Occhi che squadrano, squadernano, accerchiano, soppesano, spossano, annientano e subitosubito m’abbandonano come se non fossi nemmeno reale, lasciandomi ancora più solo e per di più con un dubbio atroce: sono forse solo una sporadica, appena percettibile vibrazione luminosa, un giallo leggermente più intenso, appenappena più vivo rispetto al giallo malaticcio che ammorba tutta quanta la stanza?
“Per S.S.Q.” ritento, colorando stavolta con un rosso cazzutamente maschio la voce.
Le orecchie dei presenti sembrano essere cadute a terra per un abbassamento troppo repentino della temperatura! Di certo, il silenzio calato ora nella pescheria non lo si può definire d’oro! La voce che sento non copre gli assillanti sgocciolii ne i perniciosi sguisc-sguisc che …