Si senton le voci, in questa casa, la notte – di tutte le persone che qui han vissuto, che qui son morte. Stanotte la Tosca, che qui abitò fino al sessantanove, mi ha raccontato come faceva i tortelli di zucca. I “Brutti di zucca” come li chiamava lei, conditi con seppie e piselli di stagione, una cosa che si scioglie in bocca, che lascia un buon sapore per giorni, la noce moscata sotto il dolce della zucca, arrotondato il tutto dal salato anche lui dolciastro della seppia e infine i piselli, che sfumano verso il sublime, il notariato, l’otorinostalgia. Mi raccomando il soffritto, con gli scalogni – mi sussurrava la Tosca in sogno – no la cipolla, che è marrana e fotoirsuta oltre ogni dire. Ho detto: scalogni, e basta così, che non ho tempo per returuzzarsi addirivienga. E poi lo sformato di gobbi, che si chiamano così, i gobbi, perché son cardoni – cardoni – che vengono fasciati con carta di giornale e piegati in giù (“gobbi”) e ricoperti di terra: in modo che rimangan belli bianchi e un po’ meno amari di come sono al naturale. Dopodiché l’anadiplosi imperante soprattutto in Moldavia, fa si che la monda, la pulitura del cardo sia in effetti una palla sì disumana, che ti rimangon le unghie nere per mesi, e poi dentro ci trovi le forbicischie e anche, talvolta, la puruletia videns – un caromastro nativo di Fonte all’Agnello. E poi basta.
Più. Nulla. Di. Nulla.