Guardo queste pietre, queste strade, questi vicoli e chiassi: queste piazze e palazzi e case minuscole, con i piccoli cessi che sporgono in aggetto, murati mille anni dopo la costruzione originaria. Questo posto esprime un Vescovo, era una Diocesi, milioni di anni fa: si governavano anime dai monti al mare. C’era un Tribunale (Pietro Gori lavorò in questo paesello, ebbe uno Studio Legale qui). L’isolamento naturale, tra balze e forre, fece di questo posto l’ideale sede di un importante Frenocomio e di un’altrettanto importante Casa di Reclusione. Da qui non si scappava. Un signore di nome Basaglia lavorò da queste parti. Da qui son partite tracce fondamentali della Cultura di questo Paese, anche loro malgrado.
Faccio un giro per la Pinacoteca. Ci son fior di nomi di artisti eccelsi, ma l’opera sicuramente più rappresentativa di Volterra è La Deposizione del Rosso. Anche Pasolini, a suo modo, ne esaltò la bellezza assoluta. Ma Giovanni Battista di Jacopo (il nome del Rosso) non fu un artista celebratissimo, per i suoi tempi. Fu un transfuga fiorentino che andò cercando una collocazione fino a Versailles, dove si accomodò nel ruolo di decoratore di vaglia. Volterra fu per lui un esilio forzato, un tuffo nella provincia più nera, retrograda, scevra di allori e trionfi: quel che era riservato ad un giovane di buon talento, ma poco incline al praticantato umile dell’artigiano.
Il fatto è che a quest’ora son molti di più i malati di mente che di qui son passati, che qui sono morti male: molti di più i carcerati torturati e uccisi tra mille tormenti – molti di più i poveri costretti quassù, su Poggio alla Fame, ad una vita breve, stupida e dolorosa – molti di più, dicevo, delle belle pietre che compongono l’arco delle porte di accesso alla città. E anche i sogni di evasione risultano indecenti, perché irrealizzabili, perché irrisori, perché impossibili.
Da qui non si scappa.