Ci fu qualcosa di indicibile nel dolore, un’ebbrezza mortale nell’orbitare improvviso verso la vita antenata, qualcosa di peccaminoso nel non stancarmi di mangiare olive nere cunzate, le compravo al mattino secche e salate e le mettevo a rinvenire nella saliva. Un museo immaginario – nel ricordo che ho di Malraux – mi si elevava attorno, pavimenti teche e soffitti, ogni angolo possibile foderato di basilico, un etere profumato su cui svenire e forse anche capovolgersi. L’alfabeto della natura fu sacrificato su un’ara dedicata a tutta l’arte imparata dai tramonti.
Avevo mal riposto ogni cosa, tutto dentro e fuori ne uscì turbato. Qualcosa di fuligginoso fece guaire l’asino asceso dal greto secco di un fiume, espoliato di papiri. Così non potevo più scrivere e le parole mi si eviravano già alla base del collo. Lavavo i miei piedi nel collirio e umettavo lo sguardo di pomice.
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