Ricordo il giorno in cui partimmo per il corso di calligrafia. Era una fredda giornata di dicembre e al nostro
arrivo alla stazione, ci aspettava un camion con delle panche di metallo. Mi sedetti insieme agli altri e dopo
un viaggio che ci sembrò interminabile, su una strada tutta tornanti e scossoni, arrivammo finalmente alla
scuola.
Per prima cosa ci tagliarono i capelli a zero, poi ci diedero delle uniformi di panno marrone. Purtroppo la mia
aveva le maniche della giubba e le gambe dei pantaloni troppo corte, ma quando lo dissi al furiere, mi rispose
bruscamente che non ero in villeggiatura, quindi lasciai perdere. Nella camerata, chiesi a un ragazzo dallo
sguardo triste se potevo stare nel letto a castello con lui e mi disse di sì, lasciandomi scegliere se sopra o
sotto. Decisi di stare sopra e dopo avere sistemato le mie cose nell’armadietto, mi buttai sul materasso e mi
addormentai.
La vita alla scuola di calligrafia era dura. Dovevamo svegliarci all’alba, lavarci con l’acqua gelida, correre in
cortile per l’adunata, poi ore e ore di ginnastica a corpo libero. C’erano persone di tutte le età che come me si
erano iscritte al corso, un po’ per noia, un po’ per provare qualcosa di nuovo, e adesso si pentivano, ma era
troppo tardi.
Dicevano che qualcuno aveva provato a scappare, ma si era perso fra le montagne, finendo in pasto ai lupi e
agli avvoltoi. Almeno avessi scelto il corso di bonsai, mi confidai una sera con il mio compagno di letto a
castello, ma lui rispose, tanto sono tutti uguali, la vita è così.