da I GIORNI QUANTI (89)

Il giorno in cui ci tagliano il telefono decidiamo di dare una grande festa. Il vicino, il sottostante, avrebbe chiamato inutilmente per protestare. Ma noi che ci siamo venuti a fare qua? sento dire a degli squatters che, per l’occasione, si sono travestiti da gente comune, irriconoscibili tra la folla della festa. Ma è una domanda che si fanno tutti, alle feste, anche quelli che non si travestono. Se guardo il codino verde-fluorescente di quello squatter-doc non posso evitare di pensarlo vecchio e senza codino.

Incrocio una ragazza e le dico, guarda, guarda come sono vestiti. Lei è in pantaloncini azzurri, lui a scacchi, borse che li fanno oscillare ad ogni passo, macchine fotografiche al collo. Ma io quella ragazza non la conosco. E nei suoi occhi si stampa la stessa meraviglia nei miei confronti della meraviglia stampata nei miei occhi per i turisti. Però, perché avevo sentito che avrebbe capito al volo, perché m’era sembrata una delle mie parti? Ma dove sono più le mie parti, forse questo è il punto. Che prelogiche intese vado cercando? Anche se nulla mi corrisponde più, questi tentativi mi sembrano comunque il meglio che un uomo può scippare alla deambulazione cerebrale. Come Democrito che invecchiando cominciò a sparare frasi senza senso e che Ippocrate decifrò come il raggiungimento della sua saggezza. Un attimo. E ti rallegra tutta la giornata.

Sa, le dico, sono il padrone di casa. Questa è la mia festa. Può accomodarsi dentro.

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