domenica
sole, l’aria è fredda. colpi di fucile. ieri nella valle vicina i cani abbaiavano, tanti cani, una battuta di caccia. G che non può stare zitta fischietta.
solo al tavolo. il camino spento. ho dormito sul soppalco, mi sono svegliato con un leggero mal di testa. odore di legna bruciata. odore delle sue mutande, dei cerotti che teneva sul collo. il suo buon odore di ragazza.
mi sono coricato. ho sentito bussare alla porta. era lei, mi sono affacciato e ho lasciato penzolare le gambe fuori dal soppalco. mi chiede di scendere, di giocare insieme a loro. scendo in maglietta e pantaloni. C dorme sul divano. giocano. G scatta furiosa quando J le dice che il suo tempo sta per scadere. è un gioco noioso. mi stendo sul divano a piedi nudi. le guardo la forma del seno. mi domando come può essere così basso, all’altezza della pancia. le guardo i piedi.
seduti vicini sul prato sotto il rifugio. seduti vicini anche J e C. io e lei insieme al cane giriamo intorno a una vecchia stalla. sembra fatta con un forno di ferro piazzato sotto un tetto. niente dentro e nella gabbia dei cani. scendiamo fino al limite del prato dove c’è un campo di felci. qui, dice lei, era tutto tagliato quando il rifugio era attivo. chiude oggi, e i gestori si sono messi a piangere.
squilla il telefono di casa, due volte.
al rifugio ho bevuto un caffè d’orzo. gli altri cioccolata calda e P vino rosso. c’erano i vecchi seduti alle mie spalle che parlottavano con il gestore. il gestore portava pantaloni militari. bruno, con il naso lungo. fuori sole così forte che abbagliava. il lago un riflesso contornato da lingue di terra. difficile guardare le montagne e le valli contro sole.
P si è disteso sopra una panca e ha portato la mano al viso e ha chiuso gli occhi. mi sono appoggiato alla ringhiera del parapetto.
la donna del rifugio toccava con la punta delle dita gli occhi asciutti. prima di piangere è passata attraverso la porta dietro il banco. G racconta che quando è andata a salutare, l’hanno abbracciata e hanno pianto.
mi sono masturbato ieri sotto la doccia calda.
volevo appoggiarle una mano sulla schiena. ma portava un piumino celeste e mi sembrava stupido. camminiamo insieme per la strada a tornanti in discesa. ci sorprende il buio. al tramonto il bosco ha la luce di una chiesa. solo le chiese hanno questa luce, dico e lei non risponde.
scopre la pancia che ha piatta.
raccogliamo le castagne sul bordo della strada. con i piedi rompe il riccio e tira fuori due o tre castagne. non sappiamo se sono buone, se hanno il verme. sono piccole. guarda i gusci rotti e le castagne spaccate dagli animali. ci sono ghiande sul terreno.
le gambe, i piedi, chiede, come vanno.
se chiede delle gambe e dei piedi sento che vuole dire qualcosa di diverso. a un tratto sulla strada di casa, mi zittisce per ascoltare qualcosa. ha paura di incontrare un cinghiale. forse dice quello che vuole sentirsi dire. di stare zitta, dei suoi piedi e delle sue gambe.
sento il cinguettio di un uccello. le ombre sono oblique.
tu canti bene, dico. ribatte con un tono di voce più alto del naturale. con circospezione. sua cugina, dice, ha davvero una bella voce. lei è timida, non canta volentieri in pubblico. cammina qualche metro avanti. ha tirato una fascia elastica sopra i capelli. ricorda un turbante che le lascia nuda la nuca. porta scarponcini da montagna. jeans. ci fermiamo al buio per ascoltare una civetta. ma è delusa perché non sentiamo il rumore di altri animali.
tutta sera il camino acceso. questo camino con il suo tiraggio consuma facilmente i legni più grossi. al nostro ritorno troviamo J e C coperti da lenzuola sui divani. si svegliano poco più tardi.
ho i polpacci duri. mangio tanto durante la cena. lasagne, scaloppine. bevono vino e liquori fatti in casa.
guardo una bella maschera africana di legno, dipinta in bianco e nero. è appesa sopra il camino. un rilievo scolpito su una tavola di legno. la sua espressione è senza fatica, più bella di una caricatura. sento colpi di fucile.