“Gli ultimi stupidi”

Gli ultimi stupidi si incontrano in gruppo a Piazza Repubblica. Si stringono la mano, si abbracciano tutti, secondo le regole degli stupidi che i padri hanno tramandato ai figli. Sono in ritardo, si osserva, ma alle nove fanno in modo di essere seduti al ristorante, cento metri più avanti, in un bel vicolo della città vecchia. Il tavolo è fissato per quell’ora, e un appuntamento è un appuntamento, dicono tra di loro, va rispettato. Quanto la parola data, ogni promessa consegnata, questo dicono. Bisogna ammettere, infatti, che il gruppo sia abbastanza preciso, nei modi e negli abiti. Quell’eleganza e quel gusto tipici degli stupidi di una volta, dalla quale definizione, infatti, deriva siano detti gli ultimi. Tutti inchinano la testa, ogni volta che qualcuno si rivolge all’altro, tutti, indistintamente, vestono abiti scuri. Una di loro, addirittura, una stupida sui sessanta, spicca tra gli altri per quanto oggi la si potrebbe definire antiquata. Infinitamente antiquata. Non un solo particolare, l’ombretto, le scarpe con la fibbia, il biondo troppo chiaro, ma è l’aria della donna che fa pensare appartenga a un altro mondo. Due cose ancora, prima che gli stupidi si salutino: il dolce viene servito in un vassoio smaltato che ha una piccola incrinatura al centro, tra quella che sembra una margherita e un tralcio d’edera; alzando gli occhi (vale solo per gli stupidi seduti dal lato rivolto all’esterno) si possono contare un numero di centocinquanta gru volare verso sud sud-ovest.

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