INNESTI

Erano all’incirca gli anni ottanta e avevamo appena finito di piantare l’ultimo filare di
fenicotteri. In meno di un mese sarebbe stato tempo di fioritura. In fondo, a valle,
gemmavano gli struzzi, interrati a intervalli regolari, seguivano i kiwi e, per chiudere, due
terrazze di fenicotteri in boccio. La vigna era d’accompagno, uva verde e kiwi in pianura,
capperi e uva spina in cima. A incipit dei filari, le rose. La cura del frutteto era affidata al
fattore. Liborio si affannava a estirpare le infestanti, lavorava di forbice, vanga, rastrello e
potatore telescopico per arrivare fin su, al collo e oltre. In tempo di potatura si era rimediato
una beccata, cinque punti al pronto soccorso. Gli innesti erano visti con sospetto, forieri del
pericolo di mutazioni irreversibili, con il rischio che intere specie prendessero per sempre il
volo. In una stagione di raccolto andato a male, un filare di struzzi aveva imboccato il
viadotto sopra la tangenziale sotto i suoi occhi. Al verso stridulo, arrivato da chissà dove, il
primo della fila era saltato fuori dalla buca, si era sprimacciato per bene e, liberate le zampe
da un eccesso d’erba e terriccio, era partito di gran carriera, gli altri dietro. Non si può
pensare agli innesti senza il presagio delle conseguenze, disse Liborio all’apprendista,
pareggiando la terra smossa con la zappa.

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