INTRAMOENIA (Salvador Dalì) di Francesco Gambaro

Perché un film appaia prodigioso ai suoi spettatori, il primo elemento indispensabile è che questi ultimi possano credere ai prodigi che vengono loro svelati. L’unico modo è smetterla, con il ripugnante ritmo cinematografico attuale, con questa retorica convenzionale e noiosa del movimento della telecamera. Come si può, anche per un secondo, credere al più banale dei melodrammi, quando la telecamera segue l’assassino dappertutto in travelling, finanche dentro i bagni dove va a lavarsi il sangue che gli macchia le mani? Questo è il motivo per cui Salvador Dalì, prima ancora di cominciare a girare il suo film, si preoccuperà di immobilizzare, di inchiodare la sua telecamera al suolo con dei chiodi come Gesù Cristo sulla croce. Chi se ne frega se l’azione fuoriesce dall’inquadratura! Il pubblico aspetterà angoscioso, esasperato, ansioso, ansimante, scalpitante, estasiato, o meglio ancora, annoiato, che l’azione torni in campo. A meno che immagini belle e del tutto estranee all’azione lo distrarranno sfilando davanti lo sguardo immobile, incatenato, iperstatico della telecamera daliniana restituita finalmente al suo vero oggetto, schiava della mia prodigiosa, impietosa immaginazione.

Salvador Dalì, La droga sono io, Castelvecchi 2007

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