LA QUIETE DOPO LA QUIETE (a Francesco)

 

@narcord benissimo quella notte piena di boati con le onde ancor più anarchiche di noi a spazzare il Molo Est.

Erano infine arrivati l’ora, il giorno, il mese e l’anno dell’insurrezione armata (armala, cioè animale – anzi, animala – la stavamo chiamando da qualche settimana, mentre ci approcciavamo coi preparativi) ed eravamo nel 1970erotti, precisi precisi.

 

Pare, parve (oh piccolo!), che ci fosse questa certezza strisciante e diffusa (senza telefonini né social elettronici); era quello spettro che si aggirava per l’Europa: è il momento! è arrivato il momento, compagni!

Un brivido durato settimane percorreva le nostre schiene.

Stavamo per ottenere qualcosa in più che il diritto di indossare bleujeans e di riunirci in comitati di base e assemblee, operaie, impiegatizie, studentesche e nullafacentesche. Non so negli altri centri ma a Palermo gli anarchici optammo per un’organizzazione tutta nostra. Mica potevamo passare la notte a fabbricar molotov (va be’, sì) insieme con quei musoni di Servire il Popolo, fumando spinelli (questo quasi sicuramente no, con loro intendo dire) e in tutta allegria (no, con certezza assoluta)! Servire il pollo, si diceva dalle nostre parti dietro a piazza san Domenico e il vocione di Ciccio scrostava con le risate il ducotone alle stanzette del circolo, alla Fai affiliato ma non troppo.

 

I tam tam, inesistenti ma insistenti, della rivolta ci stavano pure rassicurando: gran parte delle forze dell’ordine sarebbe stata con noi, l’indomani sera, mentre avremmo fatto… già, cosa avremmo fatto?

Le bottiglie erano tutte pronte e tenute in caldo (qual locuzione infelice!) ma a cosa sarebbero servite visto che i birri sarebbero stati al nostro fianco? Del resto, come insegnava il nostro amato compagno Beppe dagli occhi celesti, nessuno fra noi ne avrebbe mai lanciata una contro esseri umani, caramba o fascisti che fossero. “Dài – mi dice ora un diavoletto mai in scadenza pur se datato – contro qualche politicazzo del cazzo, magari?!”. Soltanto per la rima, sia chiaro. Magari spenta.

“Là, in fondo al vial, ci son le jeep che fumano; là, in fondo al vial, ci… – su musica popolare che a noi piaceva fatta da Cochi e Renato – saran le nostre molotov che si consuuuumano”.

Ma se i piloti delle jeep appoggeranno la rivolta!?

Magari sotto qualche macchina blu, deserta di lavoratori. O in faccia a una saracinesca di banca, tanto dal pomeriggio erano tutte chiuse e manco le guardie giurate v’erano, allora, davanti agli istituti di debito.

Intanto, a bottiglie riposte con ordine e con un criterio d’uso veloce per l’indomani, lì nel box di Fofò, ripassavamo pure i colpi di ju jiitsu appresi dal maestro cintura nera con la A cerchiata, Ciccio Oliva: non si sapeva mai.

 

Arrivò l’indomani e, con esso, la notte di – come si diceva – tregenda.

 

La benzina comprata con la colletta, Fofò, filtrandola della sabbia, la usò per  molti mesi a venire nel suo vespone.

Il maltempo, pazzesco per quell’aprile che aveva preso di petto Palermo, bloccò tutto (ma… e le altre città d’Europa?: mica piovve dovunque; e i comunisti?).

Così finì che la notte finì.

Si chiuse la nottata con Francesco Gambaro, Damiano Sabatino e Pippo Tutone a sfidarsi fino allo stremo a fascista chi si ferma per primo! – “pazzi totale” pensavo con affetto dei miei compagni del circolo anarchico. Avanzarono, passetto agganciato a passetto, a pari merito fino allo strapiombo d’acqua mugghiante, là sul Molo Orientale (dalle parti dell’orfanotrofio Padre Messina), mentre le onde quasi anomale lo picchiavano forte.

L’altra onda, quella del fantasma che doveva percorrere l’Europa, rimase un fantasma.

Ciao, Ciccio; tienici un posto.

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