La città era un grumo di sole pallido, d’ombra e muschio i vicoli. Angusti e
petrosi, sfociavano nel largo del centro storico. La facciata austera del
duomo virava al rosa, un colore rassicurante, nonostante la tonalità
appassita, il travertino della stessa grana e umore di petali sciupati, il
campanile svettava gotico e bucava le nubi basse, bianche e pesanti.
Fermato da una sedia, il portone in fondo alla piazza affacciava sulla
penombra delle scale. La ringhiera fioriva in volute di ferro nero e appassiva
nella pietra grigia e smussata. Sui gradini incontrò un uomo allampanato.
Alla luce ingiallita della lampadina, si soffiò il naso e, con un gesto di
spigolo, s’accostò alla balaustra per lasciare il passo alla donna in nero che
lo seguiva, occhi naso e bocca in trasparenza di veletta. Dopo l’ultima
rampa, sul pianerottolo, si fece coraggio, spinse la porta appena discosta ed
entrò. L’aria era compromessa di lutto e pace e bene, sulla lingua gli si
appiccicò un ricordo di domenica delle palme e benedizioni a casa di sua
nonna. Il catafalco della compianta Redenta era nella stanza in fondo. Di
penombra e scuri accostati, la temperatura s’addensò fredda sulla nuca e,
dall’estate del cortile in canicola, si ritrovò in un autunno di pioggia
mancata, di vento acerbo e dimenticanza. Redenta, come da tradizione,
vestiva di nero, non c’era spazio per altro altro colore. Tirata l’espressione e
così i capelli, raccolti in una crocchia di forcine. Preziosa d’oro e corallo, la
collana, quella buona strideva sul collo vizzo, la stessa che i parenti
avrebbero riposto nel comò dopo la veglia. I morti non fanno paura, diceva
sua nonna. Non era vero. C’era un’ostinata fermezza, un inesplicabile
ghigno, un tremore nascosto, dentro, in fondo alle tasche del giacchino
buono, nelle scarpe con un filo di tacco tirate a lucido, nelle calze
contenitive, nelle pieghe del vestito, nelle rughe del sonno eterno, che gli
sembrò ingiusto.
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