sto fermo a lungo sullo stesso punto. la mia mano sinistra cerca automaticamente alcolici. il piano sotto i miei gomiti è irto di presenze (elencare insalate). chiavi ottocentesche di macchine tipografiche. un donchisciotte in pelle umana che solleva e poi cala una lunga lancia di ferro ossidato. un topino grigio a coda intera con sguardo sartriano. pile mestruose di cancellature.
niente petrus bonekamp burbon fundador. la collera mi fa sudare. è allergica a quanto non è corpo umano.
passeggio 10 minuti dalla porta alla finestra con passo uguale con dignità da stanchezza. ogni tanto mi fermo alla finestra e ingollo aria notturna mista a silenzio d’asfalto. un vento ultravecchio mi distrae alcuni secondi. porta dietro lontano ombre di polvere di campagna canicolare su cui con distanze geometriche crescono lucenti e immensi grattacieli trasparenti in uno splendore bianco su bianco. intere tribù vi brulicano dentro. vorrei andarci. visitarne uno. ma qui ora c’è notte. e un po prima ci sono io. qui.
nessuna macchina mi muove. i miei otto angoli non hanno alcuna necessità di moto. infatti se soltanto concentro appena l’attenzione orbite intricate mi squarciano febbrilmente i bulbi oculari e il cuore. ho già provato una volta. mi basta.
ho anche una tartaruga piccoletta che tengo in veranda. che mi funziona da barometro. poco fa tornando dal cesso mi ha fatto una confessione strepitosa e non s’è più mossa. per una buona mezzora sui calcagni ho seguito le sue operazioni.
certo che tra una immobilità e l’altra quando non ci dovessero essere interferenze il rapporto che ritorna è quello della l i b e r a z i o n e
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