I Ta’ari del Ta’ari, nell’estremo e inospitale lembo occidentale del Gobi, colpiscono l’etnolinguista per come l’inconcepibile complessità del loro idioma coesista con l’estrema semplificazione e riduzione dello stesso. Il linguaggio dei Ta’ari è contestuale: la medesima espressione può caricarsi dei più vari e distanti significati a seconda della situazione in cui viene pronunciata, dell’interlocutore, della stagione, dell’ora del giorno, dello stato di salute del parlante, e così via. Una parola vuol dire qualcosa al mattino sussurrata all’orecchio di una delle mogli, l’esatto opposto a mezzogiorno gridata al proprio fratello. Almeno così pare. La lingua dei Ta’ari è infatti composta dall’unico lemma ta’ari. Kenning supremo, ermetica formula magica in grado di sbrogliare i segreti di una società complessa, fonema proteiforme che, manipolato dall’intricata struttura mentale del selvaggio sempre massimamente conscia degli aspetti psicosociali della situazione vissuta, può voler dire tutto e il contrario di tutto. Come è facile intuire, i ta’ari studies sono tra i campi più fertili dell’antropologia contemporanea e i trattati di grammatica si sprecano quanto le etnografie che pretendono di restituirne i miti e i costumi. Colpisce il profano che, vista l’elasticità della lingua, ogni studioso abbia creduto di penetrarne gli arcani meglio degli altri, producendo un’infinità di manuali estremamente contraddittori quanto più sincera è l’intenzione dell’autore. Per chi volesse approfondire l’argomento, i classici solitamente citati sono Teaching Ta’ari to Ta’ari people of Western Gobi: an inquiry into language situationism e l’immancabile Ta’ari cosmology: piston rod cults, moon related urology and the color violet. Non mancano tuttavia gli scettici come Sir Princewin, dell’Università di Cambridge, che ritengono i Ta’ari dei trogloditi che emettono un vuoto verso, forse imitazione dell’arabo udito dai carovanieri diretti in Cina molti anni addietro, per mancanza di alternative. Contro costoro, basti ricordare che i Ta’ari hanno ammaestrato l’arte della scrittura. A favore di costoro, che scrivono con lo sputo – più nello specifico, ma senza entrare in oscuri dettagli comprensibili solo ai logologi, uno sputo vuol dire ta’ari, nessuno sputo, invece, niente, non-ta’ari. All’opposto, antroposofi del calibro di Heller o Proclizio hanno voluto vedere nel Ta’ari la clavis naturale, universale e pre-babilonese, metalingua antidiluviana che racchiude in sé stessa l’enigma dell’universo e la sua soluzione, verbo di Dio conservato dal freddo e dai sacrifici degli ultimi apostoli di un popolo eletto.
(da FRAMMENTI DI UN’ANTROPOLOGIA FANTASTICA)