Nel cortile e vento opposto del principio del mese sa se è luglio sa tuttora cigolare una delle due porte petrolio-legno. Si spalanca, fa entrare festa di due occhi, il lutto di una coda di parenti, delle buste brune di carta che scricchiolano, un’albicocca o solo sezione marcia lanciata dal cieco al primo piano. Lo spessore delle lenti. Sul sangue buttato radendosi ora il prete passa la picca d’allume. Uscendo da una ringhiera rossa come a ponte il topo già salito dalla gronda al mezzanino indaga e guadagna i suoi metri, fa un tuffo tra le foglie, sono di qualcuno. È femmina e depone, nei giorni, cinque dieci sacchetti di fame e siero che digeriscono subito il mondo, lasciando i piccoli fori bruciati, strappi, escrementi poi la gloria di una carcassa di stoffa e setole dove tra l’erba alta, lo spigo e i forasacco, una stadera di sola ruggine apre le braccia a croce per dondolare funi, assi e leve: avevano cercato facendo forza di schiodare un motore, lì. Nel resto del prato dietro. Resti di spazio continuano a picchiare nei resti di tempo, qualcosa di quanto detto annotta, fa vecchio, viene calciato giù per i gradini dai nuovi padroni, che una con i capelli rossi osserva senza ridere, piega di lato la testa. Flesse, altre cose. Come se torcerle appena viste fosse inclinarle verso una trappola, una punta di ferro